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Cronaca

Giacomo Sini, fotoreporter livornese in zone di guerra: "Nei miei scatti la speranza di chi non si arrende"

Classe 1989, documentando il progetto "Boxing sisters", ha vinto il Tokyo International Photo Awards ed è candidato al World Press Photo 2020

Husna ha 17 anni e con la sua famiglia vive a Rawanga, campo profughi nel Kurdistan iracheno, dal 2014, da quando è scappata dall'aggressione dell'Isis. Qui ha scoperto Boxing Sisters, un programma che utilizza la boxe come strumento di autodifesa per restituire fiducia alle donne e aiutarle a riscattarsi. Giacomo Sini, fotoreporter livornese classe 1989, ha raccontato per immagini la storia di Husna e delle "boxing sisters" vincendo un prestigioso premio al Tokyo International Photo Awards e, con lo stesso progetto fotografico, è candidato al World Press Photo del 2020. Ma tutta la carriera di Sini è volta a raccontare storie di confine, istantanee di vita quotidiana laddove la normalità sembra non esserci più. Storie di riscatto per far vedere quello che spesso resta nascosto agli occhi dei più.

Come inizia il tuo interesse per le zone di conflitto? 
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Ho cominciato da giovanissimo a viaggiare zaino in spalla e un giorno, grazie a un amico, sono partito per la Turchia. Non avevo neanche 20 anni, sono arrivato a Istanbul e sono rimasto folgorato da quella città. Due anni dopo ho visto che c'era un treno che, in quattro giorni di viaggio, faceva Istanbul - Teheran e sono partito. Volevo raccontare il Medio Oriente che piano piano mi stava entrando nell'anima. Durante il viaggio un ragazzo che era con me nella cuccetta ha cominciato a raccontarmi la sua storia, io prendevo appunti su un taccuino e scattavo fotografie. Senza accorgermene stavo facendo fotogiornalismo. Ho sempre sentito forte l'esigenza di raccontare quello che vedevo, le storie delle persone che scappavano dai conflitti e soprattutto quelle che non arrivavano facilmente a tutti. Volevo raccontare storie di riscatto, di solidarietà, non necessariamente legate alla guerra, storie di essere umani. In Medio Oriente c'è tanto oltre ai conflitti, ci sono persone che scappano, è vero, ma ci sono anche persone che restano e provano, attraverso organizzazioni dal basso spesso, a cambiare lo stato delle cose". 

Boxing sister

(ph. Giacomo Sini da "Boxing Sisters")

Qual è stata l'esperienza che ha cambiato il tuo sguardo sulle cose? 
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Ci sono stati due momenti fondamentali. Il primo è stato il viaggio al confine tra Libano e Siria. Sono arrivato ad Arsal, un piccolo villaggio da cui si percepivano chiaramente i bombardamenti, e lì sono rimasto 8 giorni in compagnia di una ONG e di profughi arrivati dalla Siria. Era una situazione terribile perché la gente era spaventata, solo poche ore prima erano sotto le bombe, e si aspettavano di trovare salvezza in Libano invece la situazione era praticamente la stessa. Vedevo la paura e lo sgomento nelle persone. Il secondo è stato a Shingal, dopo il massacro degli Yazidi da parte dell'Isis. Lì ho trovato storie di gente che era scappata, magari anche arrivata in Europa, bloccata al confine e costretta a tornare indietro. A quel punto avevano costruito campi profughi autogestiti provando a rifarsi una vita. A livello emotivo è stata una bella botta perché alcuni li avevo già conosciuti al confine in Grecia pieni di speranza e adesso li ritrovavo senza più niente, in una situazione drammatica. In quel momento ho capito davvero cosa vuol dire avere un passaporto e poter attraversare  confini senza problemi". 

E la tua paura più grande? 
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L'unica paura che ho quando sono in giro è rispetto all'autorità dei territori perché è difficile ottenere i permessi. Le autorità sono repressive e la mia paura è quella di essere fermato, interrogato ed espulso. La paura del conflitto si trasforma in adrenalina, ma non è paralizzante anche perché nelle zone di guerra giro sempre accompagnato da gente fidata che mi permette di muovermi in sicurezza".

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Come nasce il progetto del documentario "Sulla strada per Kobane" di cui sei co-regista con Enrico Del Gamba e cosa ti ha lasciato questa esperienza?
"Cinque anni fa, quando inziò tutto, abitavo a Istabul e andavo avanti e indietro per fare reportage su chi tentava di superare le vie di confine, cercando di raccontare come vivevano le famiglie separate dal conflitto. Avevo pubblicato qualche reportage sui media internazionali e, quando tornavo in Italia, partecipavo a incontri per raccontare la mia esperienza. Durante un incontro a Pisa ho consciuto Enrico che era già in contatto con la Onlus di Alican Yeldz ed era in procinto di partire per la spedizione umanitaria lungo il confine turco-siriano. Anche io avevo in programma di tornare in quelle zone e così abbiamo deciso di partire insieme. Lì abbiamo lavorato ed è nata una collaborazione e, al ritorno, Enrico ha sviluppato l'dea del documentario "Sulla strada per Kobane".

Che progetti hai per il futuro?
"A ottobre scorso sarei dovuto partire per la Siria, ma il viaggio è saltato a causa di un bombardamento che ha annientato il villaggio di donne su cui avevo in programma di lavorare e non era più garantita la protezione ai reporter. A dicembre è successa una cosa analoga perché ho avuto dei problemi con i permessi per Gaza. Adesso quindi cerco di organizzare nuovamente questi due viaggi e, in primavera, vorrei riuscire a raggiungere il confine tra Oman e Yemen per raccontare dall'interno la situazione di chi vuole oltrepassare il confine". 

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