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Cronaca

Armando Picchi, a cinquant'anni dalla scomparsa Novilio Bruschini ricorda il suo allenatore: "Leader silenzioso"

L'ex difensore amaranto, allenato a Livorno dalla leggenda della grande Inter nella stagione 1969/70: "Armando non amava la luce dei riflettori, ma aveva un carisma naturale indescrivibile"

Un campione in campo ed un punto di riferimento nella vita di tutti i giorni. Questo era Armando Picchi, bandiera della grande Inter degli anni '60, con la quale ha conquistato tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali, e livornese vero, che mai si è dimenticato delle proprie origini nonostante, con il tempo, sia divenuto un'icona internazionale. Una leggenda che se ne è andata troppo presto, stroncata ad appena 36 anni il 26 maggio 1971 da una terribile malattia. Ma la sua figura, i suoi valori ed il suo insegnamento non sono mai stati dimenticati, soprattutto da chi, come l'ex difensore amaranto Novilio Bruschini, ha avuto la fortuna di conoscerlo sia come uomo che come allenatore: "Spiegare con le parole chi fosse Armando è impossibile, non ho mai conosciuto nessuno come lui in tutta la mia vita", confida a LivornoToday con la voce rotta dall'emozione.

Buongiorno Novilio, lei Armando Picchi ha avuto modo di conoscerlo bene dato che era a Livorno quando, nella stagione 1969/70, arrivò sulla panchina amaranto da allenatore.
"Ricordo che prima ancora che venisse ingaggiato come allenatore venne a Livorno insieme ad alcuni suoi amici ad assistere ad un'amichevole che facemmo qui allo stadio. L'allenatore, allora, era ancora Puccinelli ed Armando non disse niente a nessuno sul motivo della sua visita. Soltanto una o due settimane dopo venne annunciato il suo ingaggio".

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Una formazione del Livorno con Armando Picchi allenatore

Quale fu il primo impatto con lo spogliatoio?
"Quando hai a che fare con personaggi del genere sei in soggezione, io quasi mi vergognavo a guardarlo. Invece lui entrò nello spogliatoio con una semplicità incredibile, mettendo a disposizione di tutti le sue conoscenze e la sua personalità. Non era uno che parlava tanto: lui comunicava con gli sguardi. Ti guardava fisso negli occhi e tu già sapevi cosa dovevi fare. Aveva questa grande forza. Ricordo ancora la notte prima che se ne andasse per trasferirsi alla Juventus: eravamo a Casciana ed io, insieme ad altri compagni, rimasi fuori dall'albergo seduto ad un tavolo fino alle tre di notte per convincerlo a rimanere: soltanto in quell'occasione lo sentii parlare tanto".

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Con Picchi le cose cambiarono significativamente anche per la squadra: se fin lì i risultati erano stati deludenti, con il suo arrivo il Livorno cambiò marcia.
"Perdemmo la prima partita con Armando in panchina, ma poi iniziammo una lunga striscia positiva scalando la classifica. Ho sempre a mente la partita di Monza: pareggiammo 1-1, ma Fava sbagliò un calcio di rigore. Se avessimo vinto quella gara saremmo potuti andare addirittura in Serie A".

Nelle partitelle durante l'allenamento Picchi giocava scalzo, anche con la pioggia, per paura di fare del male ai giocatori

Ma che allenatore era Armando Picchi?
"Non amava parlare, in allenamento ci spiegava quello che dovevamo fare senza fronzoli, mentre prima della partita ci leggeva la formazione e stop: poi ti guardava fisso negli occhi e tu capivi tutto. Ricordo che in settimana, invece, ci faceva fare molte partitelle. Si sentiva ancora giocatore e voleva così prenderne parte anche lui: giocava scalzo per paura di farci male, anche quando pioveva. Pretendeva poi il massimo impegno e il massimo agonismo in ogni allenamento, come fosse una partita. Quando ciò non capitava si arrabbiava e interrompeva la sessione: a volte, addirittura, ci ha riportato negli spogliatoi per spiegarci cosa non gli era piaciuto. Era inoltre un tipo che non gradiva le critiche eccessive e i 'bubbolii' del pubblico: per questo spesso andavamo ad allenarci al campo di rugby o a Rosignano".

Qual è stato il suo rapporto con Picchi?
"Io con Armando avevo un rapporto bellissimo, quando sbagliavo mi diceva di non preoccuparmi, di non avere paura e di non stare a leggere quello che scrivevano i giornali. Mi diceva: 'te continua a dare il massimo, poi lo leggerai a fine campionato cosa diranno di te'. Questo mi dava una carica enorme e mi tranquillizzava. Con lui potevi anche giocare male, ma se in campo davi tutto ti portava sempre sul palmo della mano". 

Novilio Bruschini a Livorno-2

I suoi punti di forza erano quindi il carattere e la personalità.
"Certo, aveva un carisma naturale incredibile. Ripeto, la sua forza era il suo sguardo: io non sono mai riuscito a spiegarmi come riuscisse a trasmettere quella carica soltanto guardandoti, rimane ancora oggi per me un mistero. Eppure lui non era un personaggio che voleva apparire: non amava parlare troppo e non amava andare davanti alle tv, ma quando andavamo in trasferta tutti, tifosi, giocatori ma anche giornalisti, volevano vederlo, anche solo per un saluto. Quando andavamo al sud ci facevano fare notte, perché tutti volevano trattenere Armando e scambiarci una parola. Era circondato da un rispetto impressionante, era un punto di riferimento naturale".

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Com'era Picchi fuori dal campo?
"Armando era un tipo silenzioso e serio, ma anche molto spiritoso. Ci sono diversi episodi che ricordo ancora con piacere. Uno riguarda uno scherzo che facemmo a Luciano Zanardello (centrocampista amaranto del tempo, ndr), che dormiva in camera con me e che, siccome era un timido e diventava spesso rosso, prendevamo in giro dicendo che beveva. Una sera, prima di una partita, andai da Picchi e gli dissi se potevamo fargli uno scherzo: lui, dopo essersi fatto spiegare di cosa si trattava, accettò. Presi quindi una bottiglia di vino e la misi fuori dalla finestra, poi, quando Picchi passò alle 23 per il consueto controllo nelle camere prima della notte, chiese a Zanardello di guardare fuori: lui vide la bottiglia e Picchi iniziò a rimproverarlo chiedendogli come gli fosse venuto in mente di bere prima di una partita. Luciano diventò rossissimo, fu una scena divertentissima. Un altro episodio riguarda il ritorno dalle trasferte e dal ritiro di Cascina: andavamo quasi tutti in macchina per tornare allo stadio, compreso Picchi che aveva una Jaguar. Mi ricordo che inizialmente Armando era sempre il primo ad arrivare, poi, dopo che avevamo iniziato la striscia vincente, iniziammo ad arrivare prima noi giocatori: facevamo quasi delle corse in macchina, ma Picchi non ci ha mai detto niente". 

"Quando andavamo a pranzo al ristornante dopo la partita non ci ha mai fatto pagare il conto"

Ci racconti qualche altro episodio curioso.
"Il lunedì, dopo la partita, andavamo a mangiare all'Antico Moro. Armando prenotava sempre due tavoli in fondo al corridoio: uno per sé e sua moglie, l'altro per me, Fava, Martini e Lorenzetti, che eravamo il gruppo degli scapoli. Non ci ha mai fatto pagare niente. A quei tempi, poi, spesso non riscuotevamo tutti mesi, ma lui ci tranquilizzava spingendo sui premi e sul fatto che i soldi, prima o poi, sarebbero arrivati, come effettivamente poi accadde. In campo, invece, ricordo che non poteva entrare perché non aveva il tesserino. Ci accompagnava quindi fino all'ultimo scalino prima dell'uscita dal tunnel degli spogliatoi e ci guardava senza dire nulla. Poi lo rivedevamo insieme a Mauro Lessi affacciato da una finestra dei bagni che dava sul campo. Era un uomo eccezionale, come testimonia un piccolo particolare".

Quale?
"Zanardello è rimasto molto legato a Livorno e spesso torna in Toscana. Quando passa da queste parti prende sempre dei fiori da portare sulla tomba di Armando, malgrado siano passati tutti questi anni".

Qualche rammarico?
"Credo che Armando non sia ricordato quanto meriterebbe. Ci sono città in cui vengono ricordati quotidianamente giocatori di quei tempi, calciatori che sono niente in confronto a ciò che è stato lui. Picchi ha portato in giro per il mondo il nome di Livorno, su di lui si potrebbe scrivere tantissimo. È stato un punto di riferimento a livello umano e mi auguro che tanti ragazzi possano incontrare nel loro percorso persone come Armando". 

"Picchi non ci disse mai nulla della sua malattia. L'ultima volta che l'ho visto abbiamo parlato e riso come sempre"

Qual è stata l'ultima volta che lo ha visto?
"Era andato alla Juventus, un giorno arrivò Albrigi (ex attaccante del Livorno, ndr) a dirmi che lo aveva chiamato Armando, il quale gli disse che ci aspettava a Torino. Andammo lì e lo trovammo fuori dallo stadio in tuta e ci mettemmo a parlare. Già in giro circolava la voce che non stesse bene e lo trovammo un po' dimagrito, ma lui non ci disse nulla in proposito ed anzi, era sorridente e scherzava. Iniziò a parlare e ci raccontò tante cose, trattenendoci per un'ora. Poi ci salutò, ci fece gli auguri e ci abbracciò. La volta successiva che l'ho rivisto era dentro una bara allo stadio. Ogni tanto questa scena mi torna ancora in mente: mi chiedo ancora il perché di quella chiamata. Non so se voleva salutarci e non mi sono mai informato per sapere se fece lo stesso con altri. Di quella sera mi ricordo ancora la strana sensazione che provai per tutto il viaggio di ritorno".

A distanza di tutti questi anni, qual è l'immagine che conserva di lui?
"Il suo sguardo quando entravo in campo: mi sembra di vedere ancora i suoi occhi fissi su di me. È un'immagine che non potrò mai dimenticare".

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