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Cronaca

Coronavirus, il racconto di un livornese in Brasile: "Qui è il caos, contagio fuori controllo nelle favelas"

Fabrizio Stasi, ex assistente della Misericordia di Antignano, vive nel Paese sudamericano da 24 anni: "Siamo un aereo in caduta libera. Manca l'acqua, figuriamoci mascherine e gel disinfettante"

La conta dei contagiati e dei morti, in Brasile, sembra non volersi arrestare. Il Coronavirus, che pare oggi in remissione nel nostro Paese, sta colpendo con particolare violenza lo Stato sudamericano, costretto a fare i conti con una situazione di giorno in giorno sempre più drammatica. 330.890 contagiati, 21.048 morti fin qui: numeri che fanno del Brasile la terza nazione più colpita al mondo dal Covid-19, dietro solamente a Stati Uniti e Russia. E là, a Fortaleza, capitale dello stato di Cearà, nella parte nordorientale del Paese, vive da 24 anni Fabrizio Stasi, livornese, ex assistente della Misericordia di Antignano, titolare, in passato, di un negozio di biancheria intima nel quartiere di Coteto.

"Dopo essermi separato - racconta Stasi, che oggi ha 67 anni - andai in Brasile e là, nel 1994, conobbi don Alfredo Nesi a Fortaleza. Mi innamorai della città e decisi poi di trasferirmi lì definitivamente. Qua ho conosciuto mia moglie e ho aperto alcune attività: ho anche un ristorante sul lungomare, simile ai locali che ci sono sul viale Italia". La sua nuova vita carioca, seppur tra le contraddizioni che caratterizzano il Paese sudamericano, è scorsa poi via liscia senza troppi intoppi, almeno fino a poche settimane fa, quando la pandemia da Covid-19 ha messo in ginocchio l'intera nazione.  

"Siamo un aereo in caduta libera, impossibile contenere il contagio nelle periferie"

Buongiorno Fabrizio. La situazione in Brasile si sta facendo particolarmente drammatica negli ultimi giorni: può raccontarci cosa sta accadendo?
"Qua intorno a metà marzo sono stati presi i primi provvedimenti di chiusura delle attività, il mio Stato rimarrà in lockdown fino al 31 maggio. La situazione sta peggiorando giorno dopo giorno, non soltanto quella sanitaria, ma anche quella economica: siamo un aereo in caduta libera. Ad oggi ci sono già stati più di 20.000 decessi, nel mio Stato circa 2.000. A destare preoccupazione sono soprattutto le periferie: non c'è l'acqua, figuriamoci se possono esserci mascherine o gel disinfettanti. Nelle case abitano sette/otto persone e mantenere l'igiene è praticamente impossibile. È difficile dire ai bambini di stare in casa, sono abituati ad uscire quando piove per raccogliere l'acqua piovana. C'è una disparità sociale incredibile, nelle favelas c'è un livello nettamente inferiore di qualità della vita. Tra centro e periferia c'è la stessa differenza esistente tra lo stare a New York o in Africa. Sono due mondi completamente diversi, c'è uno scalino sociale troppo grande".

Quali provvedimenti ha messo in atto il governo per cercare di contenere l'epidemia?
"Qui, purtroppo, di fatto c'è una dittatura e i vari ministeri non hanno autonomia. È stato deciso il lockdown e in giro ci sono poche persone, ma in periferia in realtà è tutto aperto, a differenza di quanto avviene in centro, dove abito con mia moglie. Io esco una volta ogni tre/quattro giorni soltanto per fare gli acquisti essenziali, andando in farmacia o al supermercato. Ma se uno vuole comprarsi un paio di ciabatte può andare tranquillamente in periferia. Sono due realtà totalmente opposte".

E gli ospedali? Riescono a far fronte all'altissimo numero di contagiati?
"Guardi, proprio la scorsa domenica sono dovuto andare in ospedale per una colica renale. Sono rimasto là dalle tre del pomeriggio alle tre del mattino, ho potuto constatare con i miei occhi la grande professionalità di medici e infermieri: indossano tutti le mascherine e c'è grande attenzione all'igienizzazione e alla sanificazione. Rispettano alla lettera tutti i protocolli e fanno il possibile. Purtroppo, però, negli ospedali ci sono molti accessi che potrebbero essere evitati, come quelli per persone in stato di ubriachezza o sotto gli effetti della droga e quelli di vittime di scontri a fuoco".

Lei conosce persone che sono rimaste infette? E come sta vivendo questa situazione? 
"Personalmente non conosco nessuno contagiato, pochi giorni fa è morta mia cognata ma per cause estranee al Coronavirus. Io sono relativamente tranquillo: abito da solo con mia moglie, i miei figli e i miei nipoti sono nelle loro case. Io penso che nella vita un margine di rischio ci sia sempre, non voglio farmi prendere dalla paura e dall'ansia. Bisogna mettere in atto tutte le precauzioni possibili, ma senza smettere di vivere. La vita è un terno al lotto".

Quando sono iniziate ad arrivare le prime notizie dall'Italia quali sono state le sue reazioni? Ha iniziato a preoccuparsi anche per il Brasile oppure la vedeva ancora come una minaccia lontana?
"Dico la verità, pensavo fosse impossibile che l'emergenza arrivasse qua, a migliaia di chilometri di distanza. Io ancora andavo al mare e anzi, ricordo che i miei amici che stanno in Italia mi invidiavano per questo. Mi dicevano ‘beato te che può startene tranquillo in spiaggia'. Quando le cose non si toccano con mano sembra impossibile che possano riguardare anche te. Invece poi la situazione è degenerata. Ricordo che qui il primo caso è stato proprio quello di un manager di ritorno da Milano: una volta rientrato a San Paolo si è riunito con tutta la sua famiglia è da lì è partito tutto".

Secondo lei c'è stata una sottovalutazione del problema da parte del governo brasiliano?
"Bolsonaro fino alla scorsa settimana si faceva vedere in pubblico senza mascherina ad abbracciare e baciare la gente. Il ministro della Salute più volte gli ricordava che avrebbe dovuto dare il buon esempio: se uno vede in tv il presidente che si comporta in quel modo, pensa di poterlo fare liberamente anche lui. È stato un esempio negativo. Tra l'altro il ministro della Salute si è poi dimesso proprio per questi contrasti".

E adesso come se lo immagina il futuro? L'Italia sembra vedere la luce in fondo al tunnel, mentre il Brasile è ancora nel pieno dell'emergenza.
"Sono convinto che l'Italia ne uscirà, deve uscirne per forza prima o poi. Qui stanno iniziando a circolare i primi progetti di riapertura di alcune attività, ma il Brasile, da questa epidemia, ne uscirà ancor più indebolito. Il governo ha istituito un sussidio di 600 Real (equivalenti a 100 euro, ndr) al mese per tre mesi per i lavoratori indipendenti: aveva stimato 22 milioni di domande, invece ne sono arrivate il doppio. La vita, poi, non sarà più la stessa almeno per qualche mese: saremo traumatizzati, avremo paura a stare vicini alle altre persone. In più va sottolineato un altro aspetto: l'Italia può contare sugli aiuti dell'Unione Europea, il Brasile invece, come tutti gli Stati sudamericani, è solo. È il caos totale. Bisogna però stringere i denti: come mi disse un mio amico, la morte deve trovarci vivi".

Terminata l'emergenza pensa di tornare in Italia e a Livorno?
"Vedremo, è dal 2013 che non vengo in Italia. Sento nostalgia di Livorno, del suo mare e del suo salmastro: la città, da quando è tornata a splendere la Terrazza, si è fatta ancora più bella. Ma preferisco non fare programmi a lungo termine: alla mia età, è meglio pensare poco alla volta".

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